
Negli ultimi tempi Hannibal sembrava aver semplificato le sue ambiguità e proprio in questo episodio ne gustiamo i motivi e il successo. Quello che abbiamo visto ultimamente era, infatti, una progressiva apertura verso un gioco a carte scoperte. Non siamo più completamente all’oscuro delle intenzioni dei protagonisti, non siamo più pervasi da un senso di disagio impalpabile. Quello che gli autori hanno completato con successo è lo svelamento dei ruoli, grazie al quale possiamo porci con più chiarezza dietro i personaggi. Sebbene si potesse pensare che dopo una prima metà di stagione assolutamente assordante nella sua eccellenza cacofonica, Hannibal avesse perso un po’ quelle qualità sottili che ne hanno fatto una serie grandiosa, ora possiamo dire con certezza che il percorso era bello che segnato e ha dato ancora frutti succulenti.
Tome-wan, in effetti, è proprio un episodio sullo svelamento: il gioco dell’acchiapparsi è diventato esplicito, ma i giocatori continuano a correre intorno fino a rendere poco chiaro chi insegue e chi viene inseguito- come nel piatto-metafora ucraino posto sapientemente a metà episodio per un cambio di tono. Si tratta, dunque, di un diverso tipo di ambiguità, perché, nonostante non abbiamo ancora idea di chi stia avendo la meglio davvero, possiamo partecipare in maniera più diretta alle manipolazioni dei personaggi. Tutta la parte iniziale è un susseguirsi di standoff a due, girato ad hoc, in cui le maschere vengono tolte ma le intenzioni rimangono incerte. Fino ad arrivare allo smascheramento materiale del rude, del maiale: Mason che diventa davvero il bacon di qualcuno dandosi in pasto ai cani e a se stesso. “I’m full of myself”: l’episodio sguazza nello humour nero più che mai.
Un’altra svolta molto importante è data dal cambio di origini della visionarietà. Dopo immersioni gotiche nell’inconscio piuttosto scosso di Will, le immagini più forti dell’episodio appartengono al mondo della realtà e dell’immaginazione volontaria e psichedelica. Non si tratta di exploit artistici in cui gli autori ci accompagnano all’interno dei personaggi, offuscando i limiti tra realtà e immaginazione. Vediamo Will che taglia la gola ad Hannibal dopo aver chiuso gli occhi, vediamo una nuova forma selvaggia di Lecter attraverso gli occhi alterati dalle droghe di Mason. La visionarietà in questo episodio, quindi, non è rimasta intrinseca allo sviluppo psicologico, ma viene stuzzicata da determinazioni reali. Il che si ricollega al discorso sullo smascheramento, che prende il posto dell’onirismo disturbante. Eppure l’occhio crede di vedere, ma la questione dell’identità rimane fumosa.
L’ombra della tragedia greca è costante e in questo calcolato esplicitarsi veniamo assicurati che il tallone d’Achille del nostro Achille (Lecter) non è solo il suo complesso di superiorità, quell’autocompiacimento che completa il carattere di super-dandy, ma proprio Patroclo: ovvero il timore della solitudine. Le persuasioni di Hannibal sui maiali sono molto diverse da quelle in cui avvolge le sue amicizie: l’empatia di Will gli offre occasioni ghiotte per cedergli la sua maschera di super-uomo cannibale. Questa è un’identità con cui Will ha lottato per diversi episodi, l’ha poi fatta aderire completamente al suo corpo svuotato e, dopo il flusso di sangue di Hannibal che va a impregnarlo nella sua mente ad inizio episodio, se ne stacca con più chiarezza, tenendo ancora coperto il suo, di volto. Pur vedendo le maschere cadere stentiamo a mettere a fuoco chi ci sta davanti. Anche perché probabilmente si tratta di un’altra maschera.
L'articolo Hannibal – 2×12 – Tome-wan sembra essere il primo su Serialmente.