Siamo giunti al piatto forte: relevé è il piattone di carne davanti al quale i falsi magri fingono di spaventarsi. Bryan Fuller e soci ci hanno messo undici episodi a prepararlo con calma e attenzione e il gusto è ancora una volta raffinato, ma tutto sommato corposo. Releves è la Main Course che riaggancia i conti in sospeso e pone le basi per un finale (si spera) da urlo.
Hannibal è una storia di delicate manipolazioni psicologiche e visioni distorte della realtà e dell’altro. Tutto ciò che è successo finora, persino negli episodi stand alone, ha portato alla resa dei conti di cui siamo/saremo testimoni. Per ogni intromissione del dr Lecter nella mente di Will Graham un pezzo è stato portato via, riposizionato e ha assunto nuovi significati (il copycat? “Someone like you”); la forza empatica di Will però comincia a sopravvalere su tutte le piccole inferenze del cannibale, collegando i pezzi come non aveva mai fatto prima. L’intervento di Hannibal ha riecheggiato stentoreo nella percezione che Will ha di sé, ma soltanto ora cominciamo davvero a capire quanto sfaccettato sia stato il suo depistaggio.
Un’espressione di tristezza pervade il suo volto quando si trova ad incastrare Will come il tanto discusso copycat killer, quasi deluso dal fatto di aver confuso talmente tanto le acque da ritrovarsi a rinunciare al suo potenziale “amico”. La scena della “zuppa di pollo” richiama con nostalgia il loro primo pasto.
Da subito Hannibal sembrava stesse giocando con le forze dell’ordine, fino a poi svelare pian piano quanto fosse consapevole del pericolo che uno come Will potesse minacciare la sua libertà. Da qui ha avuto inizio la duplicazione di omicidi commessi da altri e la sottile e apparentemente benevola manipolazione dell’empatico Will e del solido, razionale Jack Crawford. Il miglior modo di distrarre chi si immedesima nell’assassino è gettargli fumo negli occhi.
A rendere la sua figura ancora più affascinante è l’utilizzo della parola “friend”, che suona straniante, quasi adorabile, quando è proferita da Hannibal con l’innocenza e la genuina sorpresa di un bambino.
Di questa figura complessa si concede, poi, uno scorcio più limpido. Nel finale dell’episodio il dr Lecter si apre alla sveglia Abigail (la prima a collegare davvero gli indizi) ammettendo le motivazioni della sua architettata confusione: “I was curious what would happen”. Si tratta della curiosità della mente più elevata di fronte al comportamento degli animali (pecore, per l’esattezza); una mentalità scientifica che, stavolta, si accosterebbe più al profilo sociopatico che psicopatico, se non fosse che Hannibal è pienamente consapevole delle sue intenzioni, azioni e delle rispettive conseguenze.
Si sbarazza, infatti, della spettrale Georgia, testimone di un suo crimine ma inadeguata alla sua identificazione (perché non si sa mai). La luce horror con cui abbiamo visto l’ex fantasma diventa onirica, quasi eterea. Ella parla con Will dell’essere sbagliati per questo mondo. Del resto gran parte dei dialoghi della serie ruotano attorno ai rapporti umani: l’empatia come superpotere è emblema del capirsi tra esseri diversi. L’istinto vitale e il riconoscimento in una nuova “fase dello specchio” sembrano rinvigorirsi in Georgia, che si credeva morta, ed è proprio quello su cui Hannibal conta: uno specchio, un pettine, la scintilla dell’identità ritrovata. Dopodiché il forno è rovente. La sua, di identità, è ancora al sicuro.
La trasformazione di Georgia da mostro pseudo-sovrannaturale assurta ad angelo consolatore non è di poco conto, pochi autori riuscirebbero a gestire dei momenti così d’impatto senza scadere nel ridicolo. In effetti l’intera stagione ha corso su binari perfettamente impostati e ripuliti. Dalle delicate dinamiche interpersonali alla messa in scena impeccabile, passando per dialoghi per nulla scontati, ci siamo ritrovati con una serie decisamente sui generis, che non si accascia sulla solita tartare di rigurgiti poliziotteschi e villain pacchiani. A far risplendere la scrittura intelligente abbiamo trovato un cast perfettamente all’altezza: il sottile approccio di Mikkelsen si sposa all’istrionismo caciarone di Hugh Dancy, al ferreo Fishburne e persino alla rarissima eleganza di Gillian Anderson, che ricorda la vecchia Hollywood persino nel nome del personaggio. Bedelia Du Maurier fa pensare ad un’attrice decaduta con l’avvento del sonoro.
Anche gli occhioni di Abigail aggiungono dettaglio decorativo alla storia. “It felt good” confessa a Will riguardo il togliere la vita a qualcuno, mentre questi prova terrore e senso di potere allo stesso tempo. Un’analisi senza mezzi termini della posizione privilegiata dell’assassino. E’ chiaro che in questa crime series l’importante non è chi ha ammazzato chi né in quale assurda maniera, ma che cosa ha provato mentre lo faceva. Per questo serpeggia all’interno della serie un valore disturbante più incisivo delle sue immagini gore e i confini della tanto menzionata “mental illness” sono giustamente fumosi: per Jack la mente di Will funziona in maniera talmente differente da quella degli altri che non sanno come altro definirla se non come “follia”.
Però le sue visioni, ormai incrociate, hanno un loro senso e una certa utilità: Will vede e sente Hannibal, anche se trasfigurato nell’immagine di un cervo in fiamme (“Flaming Stag” potrebbe essere un titolo perfetto per la parodia porno gay di questa serie) e gli si avvicina sempre di più. Purtroppo le conclusioni a cui la polizia arriva sono a suo svantaggio, per ora. Dateci sto dessert.
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