“I’m disappointed”.
Allan Cubitt, fin da principio, deve esser stato molto fiducioso nella possibilità di promozione della storia da miniserie a serie con più stagioni, almeno due, soprattutto confortato dall’interesse che Gillian Anderson aveva mostrato per la protagonista: le ultime due puntate sono state scritte dall’autore con la consapevolezza che l’attrice – che già nella sua testa prestava il volto a Stella Gibson – avrebbe accettato il ruolo. Il risultato è che al termine di quest’ultima puntata la sensazione di aver assistito a un pilot diviso in cinque parti è molto forte. Non che sia stato raccontato poco, tutt’altro, ma il raccontato e le sue dinamiche attengono alla conoscenza dei due protagonisti che si muovono in ambienti perfettamente connotati.
Evitata la declinazione del classico whodunnit, l’identità di Paul Spector non è circoscritta all’essere il serial killer da fermare, né la sua famiglia viene tratteggiata con poche linee per rendere l’idea della sua abilità mimetica all’interno società. A ben guardare gli spaccati famigliari potrebbero far parte di un drama imperniato sulla mancanza di comunicazione in una giovane coppia i cui punti di contatto iniziano a esaurirsi nell’educazione dei figli, con una bambina che è una vera e propria spugna assorbente di ciò che la circonda. Sappiamo naturalmente che dietro i disegni di Olivia c’è la rielaborazione di ciò che ha intuito della doppia vita del padre, ma questo potrebbe essere uno spunto molto interessante in grado di reggersi autonomamente anche solo grazie al tipo di lavoro svolto dai due genitori: grief counselor lui, infermiera neonatale per bambini nati prematuri lei.
Professioni che nell’economia della serie rendono credibile l’ampiezza di manovra di Spector e che rimandano continuamente a elementi quali l’infanzia – quella di Paul nelle case famiglia, quella di Olivia la cui fonte di affetto coincide con l’origine dei suoi tormenti, quella di Katie sessualmente adulta ma percepita (giustamente) “as a child” da Paul e Sally – e del lutto dei genitori. Sono proprio questi gli elementi che alla fine determineranno l’escalation di errori e inaccuratezze che forniranno a Stella Gibson gli indizi più preziosi per conoscere la sua preda. Se infatti il fine degli omicidi seriali è esercitare un controllo totale sulla vittima per poi trarne godimento assistendo alla disposizione perfetta del proprio disegno, Sarah Kay con la sua gravidanza rompe lo schema: la fantasia di Paul è corrotta, un dettaglio è sfuggito al suo controllo minando la possibilità di possedere completamente il ricordo della vittima. Da qui la lettera al padre della ragazza il cui foglio conserva il calco del disegno di Olivia, la fretta di colpire di nuovo, l’avventatezza con cui lascia la scena del crimine con la vittima ancora in vita.
E poi, ma dovrei dire soprattutto, c’è lei, Stella Gibson. Le primissime inquadrature l’hanno definita da subito nelle sue peculiarità: meticolosa, precisa, single, niente foto di figli, nonni e genitori in giro per la stanza, ma il lavoro portato a letto. Il personaggio di Gillian Anderson, con il suo fascino freddo e affilato come una lama esattamente come freddo e affilato come una lama è il suo acume, gode di un inusuale lusso, in particolar modo per un personaggio femminile: la completa emancipazione mentale e sessuale, il pieno controllo mostrato in tutte le situazioni professionali e sessuali e la precisa consapevolezza della sua competenza, sono tratti a cui non si è ritenuto di fornire il contraltare di un passato privato fatto di abusi o traumi. Il fascino spigoloso di Stella Gibson non è ammorbidito dall’immancabile background di drammi che possano reinstradare il giudizio del pubblico su sentieri già battuti, e quindi più tranquillizanti, della persona che ha dovuto costruirsi un’armatura intorno per non essere ferita di nuovo.
La telefonata finale che chiude la puntata stabilisce il punto di contatto tra questi due cacciatori – le cui realtà ci sono state mostrate con montaggi alternati fino a questo episodio – chiudendo la serie con uno scambio di battute che permette a Stella di fare quello che più le riesce meglio, in ordine ridimensionare l’ego del suo oppositore:
“I’ve been watching you with interest, We’re very alike you and me, both driven by a will to power, a desire to control everything and everyone. Obsessive, ruthless, living and breathing moral relativism. It’s just that you’re bound by conventional emotions of what’s right and wrong and I’m free”
“How are you free ?You’re a slave to your desires. You have no control at all. You’re weak. Impotent. You think you’re some kind of artist but you’re not.”
analizzare ed esporne le debolezze:
“Does she love her daddy ? Does she look up to him ? What’s going to happen when she finds out what you really do ? It will destroy her. It will kill her”
e, in ultima analisi, rivelarne la banalità del pensiero:
“Art is a lie. Art gives the chaos of the world an order that doesn’t exist.”
“Is that you really why you called me? To expound some half-baked philosophy? I’m disappointed.”
Prendo a prestito l’ultima battuta per esprime il mio di disappunto nell’essere lasciata così, nel punto di maggior piacere in cui avrei voluto almeno altre cinque puntate. Ma tant’è: Spector è in viaggio verso la Scozia con sua moglie nuovamente incinta e quindi forzata a perdonare il tradimento del marito mai consumato ma utilizzato come scusa per coprire le sue notti lontane dal lavoro. Dietro di lui un identikit piuttosto rassomigliante, una vittima ancora in vita che non sappiamo se si sveglierà mai e in quali condizioni cerebrali. Per quel che mi riguarda attendo il prossimo anno consolandomi nell’attesa con questa gif.
FY a finale e stagione che ha nell’intreccio corruzione-politica-prostitute il suo punto meno interessante, ma nulla che non possa essere controbilanciato dalla presenza di Kalinda con i capelli sciolti. A proposito, il personaggio di Archie Panjabi, con un po’ più di spazio, può candidarsi a lasciare il segno.
Note
- The Fall è disponibile su Netflix
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